Un recente articolo uscito su Forbes parla del tradimento dello Smart Working, in quanto le grandi aziende, dopo il boom da pandemia, stanno richiamando i lavoratori in sede. Tutte le grandi dell’HiTech, pioniere del lavoro da remoto, che durante la pandemia hanno cavalcato l’onda dell’innovazione organizzativa, oggi fanno marcia indietro sulla flessibilità, scatenando malcontento e insoddisfazione tra i dipendenti.
Qualcosa è venuto a mancare nella promessa del vantaggio reciproco, nella visione comune di innovazione e di futuro. Le premesse sembravano parlare di un salto in lungo verso la costruzione di una nuova era del mercato del lavoro e senza alcun dubbio un win-win tra datore di lavoro e lavoratore.
È possibile che nell’equazione sia venuto a mancare l’ascolto? Secondo le parole di Mario Alessandra, fondatore e amministratore Delegato di Mindwork, riportate da Il Sole24ore, il fattore comune delle varie sperimentazioni deve e dovrà essere sempre l’ascolto dei reali bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori, a seguito del quale orientare le scelte gestionali su soluzioni sostenibili e compatibili con le esigenze di produttività.

In psicologia del lavoro si parla di Smart Working solo nei casi in cui questo venga esplicitamente richiesto dal dipendete e approvato dall’azienda, all’interno dei vincoli stipulati nella contrattazione individuale specificamente stipulata. È proprio il connubio tra i bisogni reciproci che fa dello Smart Working una strategia vincente nel cambiamento e nello sviluppo organizzativo. Allo stesso modo, è fondamentale che la persona sia libera di scegliere se richiedere o meno la misura di flessibilità, senza che le venga imposta come obbligatoria e con una logica coercitiva del tipo aut aut.
Pare si voglia approdare alla formula ibrida, in cui si lavora in smart solo per alcuni giorni a settimana e negli altri si rientra nei luoghi di lavoro. In realtà questa ipotesi è quella più idonea per le imprese che vogliano adottare un modello di flessibilità oraria e organizzativa, in cui solo a seguito di un’analisi della situazione specifica è possibile individuare le soluzioni, il numero di giornate in smart work da concordare con i collaboratori al fine di favorire maggiore qualità di vita ed efficienza produttiva. Nell’articolo di Forbes si legge di una ricerca pubblicata a maggio scorso dalla Federal Reserve di New York -una versione rivista dell’articolo delle ricercatrici di Harvard, Natalia Emanuel ed Emma Harrington – in cui le ragioni di una scelta ibrida risiederebbero nel bisogno dei lavoratori di fare comunità, di interfacciarsi di apprendere sul campo, di sperimentare le opportunità derivanti dalla relazione faccia a faccia.
Pertanto, lo smart working o il lavoro da remoto, resterebbero una possibilità di conciliare meglio il tempo di vita privata e il lavoro da utilizzare in qualche occasione.
Non si tratta dunque di tradimento dello smart working – che nelle ricerche condotte starebbe causando un calo della produttività del 4% – ma di ottimizzazione dell’organizzazione del lavoro, andando oltre la logica tutto o niente e adottandolo come strumento di facilitazione del lavoro, soprattutto in risposta alle esigenze di entrambe le parti.
Il futuro sarà ibrido con una percentuale di aziende pari a oltre il 50% e un restante 10% che adotterà lo smart working interamente, come formula stabile del rapporto di lavoro.
Anche riguardo agli spazi di lavoro, un’indagine di Knight Frank sui dirigenti responsabili del settore immobiliare in 350 aziende in tutto il mondo, rivela che le aziende vanno verso un ridimensionamento dal 10 al 20% dei metri quadri anche a seguito del deficit di offerta per gli immobili di alta qualità e del caro affitti.
Martina De Candia
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