Da qualche anno vediamo sempre più spesso i giornali titolare di personaggi extra-ordinari che compiono azioni fuori dal comune come ad esempio fare quattro lavori ed essere anche una madre, laurearsi con un anno di anticipo in medicina ed essere anche un modella e traveller o essere il primo/a neolaureto/a ad aver raggiunto una certa posizione e così via.
Qual è il problema di questo tipo di narrazione?
La pubblica esaltazione di esempi come quelli sopra citati porta dietro di sé l’idea che tutte le persone possano essere altrettanto straordinarie se solo lo volessero, e che tutti, con un po’ di impegno in più, possono ottenere dei risultati eccellenti e meritevoli di attenzione. La fallacia di queste dialettiche risiede nell’idea che tutti possano raggiungere lo stesso traguardo di performance (lavorativa e nello studio) con il giusto sforzo. Quello che non viene considerato è che non tutti partono da una stessa base di opportunità (e budget). Non tutti hanno la possibilità di ricevere lo stesso livello di istruzione o di poter contare sul supporto familiare, pertanto, la “straordinarietà” spesso non è commisurata ai diversi livelli di partenza.

Il valore dominante che viene espresso è quello della competizione brutale e del vedere la vita come una gara a chi arriva primo, dove il premio mediatico è vinto da chi brucia prima le tappe e sacrifica tutto per questo obiettivo. Questo approccio è strettamente legato all’ansia di esaurire tutto al più presto: in mancanza di senso ci resta solo la velocità.
In termini di comunicazione, esaltare mediaticamente solo i casi di straordinarietà squalifica, di per sé, tutti coloro che, per estrazione culturale o per condizione economica differente, non riescono a raggiungere obiettivi altrettanto ambiziosi o “straordinari”. Ma la realtà è composta per la maggior parte da persone comuni, spesso già impegnate a fare i conti con elevate richieste di performance dall’ambiente circostante e con la difficoltà di tenere insieme tanti ruoli allo stesso tempo.
Da un punto di vista del benessere sociale e individuale, l’esaltazione della straordinarietà come unica strada per sentirsi realizzati è essenzialmente la condanna ad un perpetuo senso di inadeguatezza e frustrazione per non essere come quelle persone di cui parlano i giornali. La domanda che risulta venir spontanea è “perché, nonostante il mio impegno, loro riescono e io no?”.
Quello che i media non mostrano è che la realizzazione personale è fatta solo in una piccola parte dal raggiungimento di obiettivi di performance: una grande fetta, invece, è composta da tutto il resto della nostra vita, dalla qualità delle nostre relazioni sociali e familiari, da quanto ci prendiamo cura di noi stessi e della nostra serenità psicologica.
Questo non vuole dire non dover aspirare al raggiungimento di grandi obiettivi o non essere ambiziosi, ma di dare il giusto valore ed importanza a ciascuna componente della nostra identità e ambito di vita, perché la straordinarietà sta nell’equilibrio dell’essere persone complete.
Martina De Candia
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